Nella comoda e facile associazione di idee ci sarete sicuramente cascati anche voi:
Startup = progetto o società avviata da giovani chiusi in un garage o in una biblioteca universitaria, senza grandi esperienze pregresse, con grande dedizione e passione e soprattutto senza un lavoro e senza capitali.
Il fatto è, però, che non si tratta solo di un luogo comune ma di un ecosistema che spesso si fonda su di esso.
Se infatti guardiamo intorno e dentro il c.d. ecosistema startup possiamo agevolmente prendere atto che esso è fondamentalmente basato sui millenials o al massimo sulla coda lunga della Y generation.
Dai programmi di incubazione post universitaria, alle università delle startup, ai contest e premi di vario tipo, ma anche e spesso agli investitori professionali.
In genere si preferisce puntare su giovani con grande disponibilità di tempo, grande dedizione, zero capitali e poca esperienza.
La logica (se vogliamo giusta) è quella che “il successo del progetto lo fanno le persone (o meglio il loro tempo totale a disposizione del progetto) mentre il business può sempre essere perfezionato, e di conseguenza proposto ad investitori che hanno fiducia cieca nel metodo”.
Tutto giusto, apparentemente.
Tranne il fatto che l’identikit dello “startupper” italiano, che emerge dalla Startup Survey, (la prima indagine nazionale sulle imprese innovative), diverge moltissimo dall’immagine generalmente diffusa e mediatica.
Lo startupper italiano è infatti prevalentemente Quarantenne, maschio, con una preparazione universitaria di tipo ingegneristico o manageriale, che conosce almeno una lingua straniera e ha aperto la sua impresa per realizzare prodotti o servizi innovativi sfruttando le competenze acquisite e restando nella propria regione di riferimento.
Aggiungendo, che spesso si tratta di soggetti prossimi ai 50 o ultracinquantenni con un pregresso manageriale e professionale e che spesso si tratta di persone che preferiscono (fino a pieno compimento del progetto) mantenere il posto di lavoro o la professione anche part-time.
Sono le “x generation startup” (non cercate la definizione su wikipedia, l’ho appena coniata).
Cosa sono?
Sono le startup mature ovvero quelle create e fondate su un team maturo ed esperto che spesso ha già un altro lavoro o che ha deciso (per propria decisione o perché fuoriuscito dal mondo del lavoro) di crearsene un altro su misura e secondo propria vocazione e passione., insomma attuare il PIANO-B.
Sono startup, poco malleabili alle quali non interessa entrare nello star system dei contest, o in programmi di incubazione che li faccia tornare a scuola.
Sono formate da team con grandissima esperienza (tecnica e di business) e molto spesso dotate di capitali propri e soprattutto di una rete di credibilità che permette loro di acquisire molto rapidamente i capitali ma anche le competenze per avviare il progetto.
Certo vi starete ponendo a una domanda. Ma se hanno capitali, credibilità ed esperienza perché nessuno ne parla (tranne l’indagine citata) e perché non risultano “ad alto gradimento” nell’ecosistema principale?
In maniera superficiale si potrebbe rispondere: “perché sono poco mediatiche“.
E’ molto più interessante comunicare il modello del “giovane brillante disoccupato che ce la fa” piuttosto dell’ex manager o quadro o professionista che ha creato o sta creando un impresa di successo.
Andando oltre, dovremmo analizzare il significato del “poco malleabili”.
Già perché ad una startup matura è molto difficile applicare un programma preimpostato di modellamento o crescita programmata. Sono founder staff che poco si adattano al concetto di crescita “polli in batteria”.
Il fenomeno
Come confermato dall’indagine (ed aggiungerei dalla mia esperienza di tutti i giorni), sono sempre di più i 40-enni o ultra 50-enni che decidono di fare startup, e sono imprese che fuori dallo star-system hanno grandi capacità di crescita e fund raising.
Di cosa hanno bisogno queste startup?
Sicuramente non hanno voglia di tornare a scuola o seguire programmi rigidi.
Hanno piuttosto necessità di un programma di tuning e crescita che si affianchi in modalità light advisoring senza imporre nulla e senza schemi predefiniti.
Un programma di sviluppo condiviso nel pieno rispetto delle competenze delle esperienze e delle reciproche affinità, svolto in maniera fluida.
Lasciatevelo dire da chi lo fa già. Da tempo. Per scelta.