Due recentissime sentenze della Corte di Cassazione (entrambe del 4 luglio2018) hanno limitano o annullano gli effetti del c.d. “patto leonino” verso soci investitori e finanziatori e in presenza di patti parasociali.
Il quadro generale
E’ evidente che ci troviamo in un momento storico, molto interessante e forse irripetibile, per la nascita e lo sviluppo di imprese ad alto potenziale (startup e PMI innovative). Una finestra temporale nella quale, si sta verificando uno straordinario allineamento tra le necessità di capitali che possano garantire la crescita delle startup, e diritto e giurisprudenza che si allineano alle nuove necessità.
Già la riforma delc diritto societario e la successiva introduzione delle startup innovative nell’ordinamento giuridico, avevano creato una mini rivoluzione soprattutto in termini di governance, diritti e categorie di soci, creazione di strumenti partecipativi “particolari”. A ciò si sono in seguito aggiunte soprattutto massime di diversi Consigli di Notariato che hanno avvicinato gli interessi dei soci fondatori a quelli dei meri investitori ad esempio introducendo una più ampia estensione del diritto di recesso ad nutum; regolamentando il diritto di covendita; prevedendo la possibilità di emettere quote o azioni a termine (solo per citarne alcune).
Esclusione dalle perdite e conservazione rivalutata della partecipazione
Recentemente (luglio 2018) la Cassazione ha fornito il proprio autorevole contributo a questa svolta storica del diritto societario e guardando alle esigenze particolari delle startup, con propria sentenza ha di fatto aperto alla possibilità di prevedere ed attuare clausole di retrocessione di partecipazioni tra soci. E’ praticamente il riconoscimento di legalità e correttezza delle cosiddette clausole di “put” che regolamentate normalmente in patti parasociali prevedono, in occasione di finanziamento partecipativo da parte di uno o più soci “finanziatori” , la possibilità che questi (finanziatori) siano manlevati dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società (non partecipazione alle perdite), mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società. È evidente che con tali clausole il socio finanziatore è sollevato dal rischio che nel frattempo la società nella quale è intervenuto subisca perdite che intacchino la sua partecipazione.
Addio Patto leonino?
E qui appunto sorgono i problemi giuridici. Il nostro Codice Civile conosce infatti una norma (articolo 2265) secondo la quale «è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite»
L’intervento della Corte di Cassazione, risulterebbe infatti, in pieno contrasto con l’art. 2265 se però si guarda all’evoluzione del contesto specifico è da ritenersi in linea con gli ultimi sviluppi dell’ordinamento giuridico che ad oggi ammette molti strumenti per rendere temporanea e senza rischio la partecipazione del socio. In linea con questo orientamento la Cassazione ha giustamente affermato che Il patto di retrocessione, persegue interessi meritevoli di tutela perché si inquadra nell’esigenza di interesse generale di facilitare il finanziamento delle imprese con un giusto equilibrio delle esigenze delle parti. I soci «finanziatori» sono garantiti dall’impegno degli altri soci (e quindi non della società che potrebbe non essere in grado) al rimborso come pure dal fatto di poter controllare comunque, essendo soci, da vicino l’ andamento della società. I soci «imprenditori» possono ottenere condizioni di finanziamento migliori perché il creditore ha un rischio inferiore (potendo contare appunto sul rimborso da parte dei consoci) rispetto ad un normale finanziamento diretto alla società.