La start up è morta. Almeno come forma caratterizzante d’impresa. Al suo posto è nato un altro soggetto mediatico-circense votato all’apparire imprenditore, piuttosto che ad esserlo, completando il complesso mosaico del circosistema con l’ultima e fondamentale tessera: un format televisivo, anzi, addirittura un documentario.
La notizia. In TV il reality delle Startup con centinaia di migliaia di euro in palio
In onda su Sky da lunedì 25 marzo, B-Heroes è la seconda edizione del percorso di mentorship ideato da Fabio Cannavale, fondatore e Ceo di Lastminute.com e sviluppato in collaborazione con Intesa Sanpaolo.
Alla fase finale partecipano 20 aziende (raccontate nel documentario) che sono il frutto di una selezione tra 450 candidature raccolte l’anno scorso.
Tra le 20 startup partecipanti, otto saranno giudicate meritevoli di accedere alla fase di accelerazione, dove saranno sostenute da un pool di “Supercoach” composto da imprenditori, mentor e da quattro grandi aziende di settore: A2A S.p.A. per la categoria di business «Sviluppo sostenibile», l’IRCCS Ospedale San Raffaele (parte del Gruppo San Donato) per la categoria «Salute e benessere», Jakala per la categoria «Tradizione e innovazione», Sketchin – Bip Group per la «Trasformazione digitale».
Il ruolo delle startup nel contesto italiano
“mettere le startup nel ruolo di protagoniste non è un artificio narrativo, ma il riconoscimento di un ruolo economico fondamentale nel contesto italiano” (cit. Fabio Cannavale).
A nostro avviso le startup non hanno bisogno di essere protagoniste e tanto meno di essere mediatiche. Le start up hanno bisogno di essere imprese ed hanno bisogno che a guidarle ci siano imprenditori; seri e silenziosi, lontani dal jet-set e dalle telecamere e lontani dai format televisivi, (pardon, documentari).
In questi anni crediamo si sia persa la bussola e la misura, in tema di start up.
Un proliferare di “cup”, di “competition” di “call”, di premi e addirittura di “audition” e di selezioni su tutto il territorio nazionale, per trovare le startup meritevoli di finanziamenti (o di andare in tv?).
Crediamo che così non stiamo formando una nuova classe di imprenditori in grado di ripetere il “miracolo italiano”. Al massimo stiamo formando una classe di soggetti che più che fare impresa mirano ad accaparrarsi il premio o a raccogliere denaro per poi utilizzarlo (o bruciarlo) in programmi di vago sviluppo, nella seria convinzione che questo significhi “fare impresa” o ancor peggio che questo significhi “fare start up; perché la start up non è un’impresa come tutte le altre”
L’imprenditore serio (e non vedo perché uno startupper non dovrebbe esserlo) sa cercare e raccogliere i fondi che gli servono, in silenzio, senza clamore e senza necessità di partecipare a gare o andare in tv e sa utilizzare quei capitali con oculatezza e soprattutto mantenendo la proprietà o almeno il controllo della propria azienda.
Il mosaico startup
Come dicevamo, questo documentario, completa il complesso ed articolato mosaico al quale in questi ultimi 6 anni (e passa) abbiamo visto prender forma.
Un universo molto variegato dove l’unica assente è stata una politica specifica con misure di sistema chiare ed efficaci. (Ci sarebbe una lista di suggerimenti a disposizione).
Un lucrosistema dove tutti (tranne le startup) ci guadagnano: gli autori (mai entrati in un’azienda) di libri “geniali”; i maghi o guru di facebook; gli incubatori di galline in batteria dalle im(probabili) uova d’oro; gli investitori che prendono il controllo o quote di exit molto lucrose; i giovani laureati in università più o meno prestigiose che si inventano “growth hacker”; i creatori di pitch “vincenti”; gli inventori di giochi di società molto colorati.
Si chiama ecosistema
Per favore non chiamate ecosistema start up quello che non lo è, almeno in questa forma impresentabile. Se davvero si vuole che le start up diventino il motore della crescita e del nuovo miracolo italiano, togliamo un po’ di cinema, di televisione, di spettacolo, di imitazioni a stelle e strisce e torniamo al concetto basilare, serio e silenzioso del fare impresa e dell’essere imprenditore (con le connaturate ansie e preoccupazioni mai citate, nemmeno in un post-it). Eliminiamo, cancelliamo, distruggiamo il messaggio che passa che “fare impresa, è divertente, è simpatico e ti fa diventare milionario”. Le startup non sono il gioco del monopoli o un bel post-it colorato attaccato a un foglio, e tanto meno un gratta e vinci
Occorre ritornare alle origini e ripensare tutto. Che non è per niente semplice; che creare “un’impresa a 1 euro”, non è fare impresa e, soprattutto che un’impresa vincente non è quella che vince il talent o il premio o il contest o va in tv, ma quella che ha (o almeno mira ad averlo) il bilancio in attivo, paga gli stipendi ai collaboratori e distribuisce (o accantona nel caso di start up innovative) utili.
Il ritorno al silenzio
Se davvero gli investitori (a qualsiasi titolo) hanno necessità di fare scouting dovrebbero sperimentare un sistema infallibile e poco mediatico: fare rete e squadra con coloro che ogni giorno e da sempre, per principio, per vocazione e specializzazione sono i primi e prioritari interlocutori delle imprese (e quindi delle startup): i dottori commercialisti.
Ci sono Ordini come quello di Milano e quello di Napoli (ci scusiamo se non ne citiamo altri per mera nescienza) che da anni lavorano silenziosamente sulle e con le startup, all’interno ed all’esterno di commissioni formate da professionisti altamente qualificati e che si prodigano quotidianamente per sviluppare il business delle start up assistendole dalle origini e fino allo sperato scale up. Sono tra l’altro Ordini che hanno avviato anche programmi di formazione interna (master gratuiti) per qualificare i professionisti che ne fanno parte ad assistere al meglio le start up.
Sono insomma le prime sentinelle alle quali occorrerebbe rivolgersi (in network) se si vuole davvero ottenere uno scouting qualificato e scremato, perché sono i primi ad assistere e formare i futuri imprenditori sulle problematiche della conduzione d’impresa e sono i primi a consigliare di non costituirsi a 1 euro o senza capitali, e addestrarli a cercarsi i capitali o aiutarli a farlo alle giuste e migliori condizioni.
In questo modo si otterrebbero molte meno start up, meno clamore e più risultati.
Non vogliamo diventare agenti di spettacolo
Certo (e speriamo che non sia così) dopo il documentario (al pari di quello sulla estinzione dei gorilla di montagna e dei grandi cetacei), cosa potremmo aspettarci di non già visto?
Magari un programma intero che ci faccia partecipare alle selezioni, ai bootcamp, o magari che entri nelle vite quotidiane degli startupper chiusi insieme in una casa per settimane, o piuttosto una isola dei famosi startupper?
Quello che ci fa più paura è dover aggiungere ai nostri titoli professionali: “agente di spettacolo per start up”.