Quella visita a Silicon Valley

Quella visita a Silicon Valley del 17 ottobre scorso, del nostro  Presidente della Repubblica, Mattarella, non testimonia solo una particolare attenzione verso il mondo dell’innovazione e delle start up ma p anche una denuncia di un ecosistema ancora troppo ingessato su canoni  poco disruptive e bloccato dalla paura delle’errore.

Era dal 1982, da Sandro Pertini, che un Presidente della Repubblica non veniva nella costa ovest degli Stati Uniti e Sergio Mattarella, nella sua visita ufficiale negli USA, ha deciso invece di dedicare due giorni alla California e in particolar modo alla Silicon Valley. Oltre ad incontrare la comunità italiana di San Francisco, il presidente ha visitato due  startup create da italiani che stanno crescendo in modo esponenziale. Progetti che i fondatori anni fa avevano provato a proporre in Italia a finanziatori italiani, trovando però solo porte chiuse e durante questi incontri il presidente Mattarella ha constatato con rammarico che nel nostro paese manca spesso al sistema il coraggio necessario per credere e portare avanti idee visionarie, Non c’è una sufficiente capacità di comprendere le prospettive e le possibilità delle iniziative. È troppo abitudinario il sistema.

Quella paura dell’errore

Poco più di tre anni fa (21 ottobre 2016) su questo blog, riportavamo (orgogliosamente, e come sempre con grande anticipo) quanto il nostro Presidente ha rilevato e constatato nella sua visita a Silicon Valley: la motivazione principale per la quale le start up italiane (quelle che ottengono fondi) e che restano in Italia non siano sufficientemente “disruptive” e visionarie

A beneficio di tutti riportiamo integralmente l’articolo.

Mi capita (n.d.r. Nicola Vernaglione) spesso di pensare a quali possano essere le differenze e le distanze tra l’Italia e le altre nazioni evolute, ed in particolare tra l’Italia e gli USA, in tema di ricerca e innovazione applicate al business ed in particolare  alle start up. La domanda é : “come mai negli USA nascono e crescono tante idee innovative di business? E come mai tante nostre start up davvero innovative (non solo per definizione giuridica) devono espatriare per trovare investitori, mercato e sviluppo?”

La risposta più naturale è: “differenza culturale”. Riferita non genericamente alla cultura storica o sociale, ma a quel particolare tipo di cultura che si chiama Fare Impresa.

L’errore è necessario e taumaturgico

Una  differenza sostanziale che risiede in particolare nell’approccio alla  Cultura dell’Errore, ovvero a quel particolare e necessario approccio che ci rende liberi di apprendere per tentativi e successivi miglioramenti.
La cultura dell’errore (ovvero il potere taumaturgico del riconoscimento dell’errore e della sua eliminazione) è il vero carburante della crescita e dell’innovazione. Pensiamo per un attimo alle grandi invenzioni e innovazioni. Non sono nate in un attimo, ma sono state il frutto di una intuizione iniziale e di successivi e numerosi tentativi errati grazie ai quali è stato possibile il costante miglioramento fino alla soluzione finale, definitiva, funzionante che ha cambiato in meglio la vita di tanti. Innovazione, appunto.

Una cultura vittima del giudizio

Ecco mi riferisco a questo. Ed in questi termini la nostra cultura, quella dell’Italia e degli italiani, è davvero molto distante da quella degli USA. Un approccio che deriva da ancestrali paure e preconcetti quasi medioevali e inquisitori. L’errore è un male imperdonabile. Non si può e non si deve sbagliare. Chi sbaglia è messo alla gogna ed è condannato alla emarginazione sociale ed economica. Per questo ammettere un errore diventa un approccio da perdenti piuttosto che da evoluti.

le naturali conseguenze


Pensiamo per un attimo a quali sono le reali, concrete e quotidiane conseguenze di questo approccio. Una fra tutte la mancanza di coraggio nella proposta e sviluppo di business realmente innovativi, o meglio di modelli di business realmente innovativi e visionari. I nostri startupper o potenziali imprenditori, sono condizionati a scegliere business model che spesso sono la derivazione “di ciò che già funziona” (la Uber del..; il Just Eat del…; ecc.) incoraggiati in questo, da un sistema complessivo che premia chi segue una via già percorsa. Chi possiede e sviluppa idee e modelli realmente disruptive che tagliano con il passato, è spesso guardato come eccessivamente visionario e per questo emarginato nella sfera delle idee di business impossibili, tranne poi emigrare negli States e svilupparla con successo. (gli esempi sono numerosi ed all’ordine del giorno).
Ecco è questo il necessario passaggio culturale che può realmente divenire un volano di crescita e sviluppo innovativo. Approccio visionario, non necessariamente estremizzato, con possibilità di miglioramento attraverso il tentativo ed il necessario l’errore, liberandosi dall’incubo della condanna sociale.
L’errore è quindi necessario e dovuto, in tema di sviluppo e crescita. Certo non mi riferisco ad errori strutturali, quali ad esempio la scarsa competenza e coerenza del founder staff o una non corretta definizione della problem/solution, alla base del modello di business, ma a quel processo di miglioramento della value proposition e quindi del modello complessivo  che conduce conseguentemente al miglioramento dei prodotti e servizi che ne derivano e quindi all’intero sistema di erogazione, produzione, distribuzione (ad esempio).
Ma come dicevo all’inizio, la mancanza di cultura dell’errore, in Italia,  è un male ancestrale che si riflette oltre che nella società anche e soprattutto nel nostro ordinamento giuridico e nell’antiquato sistema finanziario.
Certo non si possono cambiare le cose da un giorno all’altro ma cominciare a seminare questo germe, si può e si deve, a cominciare da noi che siamo ogni giorno sul campo.

 

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