Non siamo tutti Steve Jobs

Di  Nicola Vernaglione  senza nessun riferimento particolare a persone, società, enti o istituzioni di vario tipo e livello.

“Solo le persone che vogliono cambiare il mondo lo cambiano davvero” questo è stato il motto ed il credo che Steve Jobs ci ha lasciato in eredità affiancato dal sempre attuale “non abbiate paura”.

Purtroppo però  non siamo tutti Steve Jobs.

Anzi per quanto si vede in giro, in Italia,  di Steve Jobs si fa fatica a scovarne.

Premetto che non sto per iniziare il solito “solfone qualunquista” sull’Italia dove non funziona nulla; che è tutta colpa della politica, ecc..

No, non vi preoccupate. Non appartiene alla mia cultura.

Quello che sto dicendo é che qui da noi esistono menti brillanti, progetti visionari  e persone in grado di portarli avanti, dopotutto siamo in Italia e siamo italiani e continuiamo ad esportare cervelli fantastici in tutto il mondo ed essere leader (grazie a loro) nel campo della ricerca applicata in tutti i campi.

No, il problema non sta nella capacità di invenzione e di visione, ma nel sistema  anzi nell’ecosistema infrastrutturale delle startup ,  purtroppo ancora eccessivamente ancorato a valori e principi di “innovazione conservativa”.

Nel  gran movimento delle startup spesso ci si esalta citando Steve Jobs  ed i suoi motti, ma nei fatti, in occasione di contest, premi, concorsi ed anche nelle modalità di valutazione di investimento e partecipazione (in questo caso vi è una minima giustificazione in termini di rientro) si corre sempre sullo stesso binario delle repliche di business model di successo ovvero che già funzionano altrove e ancora peggio che già funzionano nello stesso posto (leggasi mercato).

Mi spiego meglio.

Steve Jobs ha fatto  dell’errore e della sconfitta (temporanea) un motivo del futuro successo ed una ragione di orgoglio. Basti pensare che il tempo necessario allo sviluppo del grande successo di Apple e della Pixar è stato superiore a 10 anni. Non si è mai sentito pronunciare dalla bocca di Steve Jobs una frase del tipo “Apple è la Microsoft degli amanti del bello…”. Sarebbe stata una frase ad effetto che oggi nelle presentazioni (pitch) clonate funzionerebbe alla grande. No, Steve Jobs si è concentrato sulla presentazione di qualcosa di unico senza la necessità di collegarsi ad un business conosciuto (o addirittura clonarlo), portando avanti un’idea unica e visionaria, che, in quanto tale, per essere accettata e diventare un caso eccezionale, ha richiesto molto tempo e molti capitali.

Ecco il tempo (e i capitali).

E’ evidente, e torniamo alle ragioni degli  investitori, che il c.d. principio della cantierabilità (ovvero possibilità che un progetto d’impresa sia messo immediatamente in atto e produca ricavi e quindi utili) sia prioritario nello scegliere la startup sulla quale investire tempo e denaro, e così (ma in maniera meno giustificata) nei vari premi, contest, competition ecc., dove però si dovrebbe premiare la visione e l’unicità, e quindi l’investimento sul futuro, anche con il rischio del fallimento o che i tempi diventino maturi nel medio termine.

Già, investire sul futuro.

E’ questo il problema. Siamo diventati un popolo di conservatori, “paurosi” e scarsamente innovatori. Preferiamo il certo, quello che già funziona, e quindi continuiamo a guardare indietro piuttosto che alle enormi possibilità del domani, ad imitare modelli che funzionano altrove piuttosto che averne uno nostro e magari esportarlo.

Una concezione di innovazione o almeno innovatività che ovviamente criminalizza l’errore “ingiustificato” non considerandolo una risorsa essenziale ed eccezionale di estrema libertà e di sviluppo reale.

E quindi, daje di pitch e presentazioni di potenziali startup e startupper che recitano come pappagalli “questa è la nuova Uber del”; “questa è la Apple del”, sapendo che in questo modo tranquillizzano il cauto uditorio che li premierà per questo.

Un’idea, un suggerimento.

Allora perché non creare contest  o bandi con sezioni dedicate all’innovazione visionaria, o, ancora meglio, inserire nei principi di valutazione (questo può valere per tutto anche per i progetti di agevolazione delle P.A. e per gli investitori istituzionali) quello dell’innovazione visionaria?

Questo si che creerebbe un popolo di veri startupper visionari “italiani doc” (per definizione inventori e visionari) in grado di cambiare il futuro (non immediato) liberandoci finalmente dai grigi cloni dei business model che già funzionano.

Buon lavoro a tutti.

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